Alla fine del
secondo anno di università avevo fatto tanti di quegli esami da essere
completamente fusa. Causa stress da troppo studio e problemi sentimentali, ho
deciso di fare domanda per l’Erasmus.
Ricordo ancora
che presentai la domanda per la selezione senza pensarci su troppo. Cosa
abbastanza strana dato il mio carattere. Credo sia stata una delle due sole
volte nella mia vita in cui ho seguito il detto Carpe Diem e ne sono stata felicissima. Solitamente io la penso in
modo diverso: Carpe Diem si ma
aspettate un attimo fatemi valutare tutto con calma
Le selezioni
consistevano in una prima valutazione della media dei voti. Superato questo
gradino bisognava fare un test scritto in inglese o nella lingua del posto in
cui si intendeva andare. Io, ovviamente, avendo scelto come mete papabili Atene
e Patrasso, ho fatto l’esame in inglese; di farlo in greco moderno non se ne
parlava proprio.
Dopo il test
abbiamo aspettato tutti insieme, circa 150 persone in un piccolo cortile interno
dell’università per quattro interminabili ore. La prof. arrivò con dei fogli in
mano. Diciamo che non era proprio il prototipo di donna dolce e comprensiva. Disse
che le persone che chiamava avrebbero dovuto seguirla.
Il mio nome non
venne pronunciato, come anche quello di altre 50 persone. Ok, sarà per un’altra
volta. Avevamo cominciato tutti a mettere a posto libri e penne. Stavamo
chiudendo le borse per andare via quando ritorna la prof. e ci comunica che
aveva accompagnato fuori quelli che non erano stati selezionati e che ora
toccava a noi sostenere un colloquio orale.
Sono stata in
Grecia per sei mesi ed è stato amore a prima vista. È stato terapeutico. Ero
stressantissima. Uno dei primi giorni in cui ero lì, avevo appena trovato casa
ed ero molto avvilita perché non conoscevo nessuno e dovevo al più presto
presentare dei documenti all’ufficio Erasmus di Atene. Entrai in un ristorante.
Mi ricordo che chiesi una pita al cameriere facendo capire che andavo di
fretta, molto di fretta.
A quel punto il
cameriere mi disse la prima cosa che ho imparato in greco moderno:
- Kiria sigà sigà!….
Signora piano piano!
Effettivamente
quello di cui avevo bisogno era imparare ad andare con calma. Il mio stress non
era altro che il frutto della fretta. Sembro percorsa continuamente
dall’inquietudine. Quando ero in Grecia mi sono rilassata tantissimo, ma appena
sono tornata in Italia l’effetto benefico è svanito e lo stress è tornato alle
stelle. Per questo motivo almeno una volta all’anno torno nella terra del mito
per fare la mia terapia.
Molto spesso
sento parlare della Grecia come di un paese arretrato, ma credo sia proprio
questo fattore ad aver preservato i Greci dallo stressarsi eccessivamente. In
molti paesi dell’Europa occidentale ormai sembra che si debba trascorrere la
propria vita a dimostrare qualcosa a qualcuno. La pressione comincia quasi
subito. Da piccolo ti insegnano che non bisogna dire parolacce o fare pensieri
cattivi e, così ti ritrovi ad autoflaggellarti per aver mandato a quel paese
qualcuno o per aver provato invidia per un amico. Poi comincia la scuola.
Soprattutto all’università bisogna dimostrare di essere eccellenti e lo si deve
fare anche molto rapidamente. Sempre in tempi ristretti, ci si deve trovare un
lavoro, altrimenti si finisce nell’interminabile lista dei disoccupati o in
quella dei precari. Dimmi tu come si fa a non essere stressati. Nel mio caso
poi oltre il danno c’è stata anche la beffa: ho fatto tutto al massimo livello,
rapidissimamente e poi? Sono disoccupata comunque. Tanto valeva stressarmi di
meno.
Ultimamente mi
sono ritrovata a farmi una domanda: se nell’arco della giornata devo
studiare/lavorare, cucinare, pulire la casa, intrattenere rapporti di
amicizia…quando lo trovo un po’ di tempo per me?
D’altra parte la Grecia mi ha anche fatto
del male indirettamente. Lì ho conosciuto delle persone speciali, con una
cultura immensa e con le quali parlare era un piacere. Purtroppo però tutte
queste persone ormai le sento saltuariamente, causa chilometri e chilometri di
distanza.
Ricordo ancora
perfettamente l’incontro con una di queste persone, quella che mi ha colpito di
più per la sua inteligenza e cultura: Fabrizio Lombardo.
Genovese di
origini e dal cuore Sampdoriano, Fabrizio l’ho conosciuto dopo un mese che ero
ad Atene. Eravamo nel locale dove ci riunivamo con tutti gli erasmus, Ostria.
Era un sabato sera e ci stavamo organizzando per la domenica. Spesso andavamo a
fare delle escursioni, più o meno lunghe e seconda degli impegni. Per quella
domenica avevamo deciso di andare ad Epidauro e lui si era unito a noi. La
mattina dopo avevamo appuntamento alla fermata dei pulmann per il Peloponneso.
Data la condizione geologica della Grecia una rete ferroviaria valida è
praticamente impensabile, per cui si fa uso dei pulmann, che a dirla tutta
funzionano in modo molto efficiente.
Faceva un po’
freddo quella mattina e il tempo non prometteva bene. Fabrizio si presentò con
un giubbino di jeans molto leggero e nella tasca interna del giubbino aveva la
sua fedele videocamera.
Sul pulmann
abbiamo parlato molto poco dato che io ho dormito per tutto il tragitto.
Eravamo circa una decina di persone. Se non ricordo male quattro italiani,
cinque spagnoli e una ragazza lituana. Il pulmann ci ha lasciati a quasi due
chilometri dal sito, ma kanena provlima[1].
Mentre facevamo
una pausa mi sono seduta su una pietra ed ho notato un albero per metà
ricoperto di foglie e per metà spoglio. Mi sono ricordata della descrizione del
mito di Protesilao e Laodamia fatta da De Crescenzo nel suo libro I miti dell’amore. Nel brano si racconta
che il giovane era stato il primo a scendere sul suolo troiano e quindi anche
il primo a morire, come predetto dall’oracolo. Dopo la morte era stato sepolto
sotto un albero che, sul lato che dava verso la Grecia, era pieno di foglie,
su quello che era rivolto verso Troia , il luogo in cui morì, era spoglio.
Quello di
Protesilao non è un mito molto famoso, bisogna essere degli appassionati per
conoscerlo e così quando Fabrizio ha detto:
- sembra l’albero di Protesilao.
L’ho adorato.
Avevo finalmente trovato qualcuno con cui valesse la pena parlare. Poi lui ha
anche scoperto che conoscevo il grande attore genovese Gilberto Govi (altro
mito, poco o per niente noto ai miei coetanei) e allora l’idillio è stato
totale.
Un giorno è
rimasto allibito. Da piccola, all’età di 2 anni conoscevo una quantità assurda
di parolacce. Ebbe così inizio un’operazione di rieducazione, una specie di
riformatorio fatto in casa. La prima fase di questa opera di rieducazione
prevedeva l’allontanamento dai miei zii che erano stati artefici della mia
istruzione fino ad allora. Mamma passò i successivi due anni a rimproverarmi.
Ogni volta che dicevo qualche parolaccia lei gridava:
- Non si dice!
I miei zii un
giorno quando avevo quattro anni circa, durante un pranzo domenicale da mia
nonna, mi misero sul tavolo, come per farmi dire una poesia e formularono la
fatidica domanda:
- Sara, cos’è che non si dice?
Fu così che
cominciai a fare l’elenco di tutti i turpiloqui di cui ero a conoscenza.
Mamma e zio si
accordarono in questo modo. L’unica cosa che potevo dire quando ero arrabbiata
era Mannaggia la Sampdoria. Essendo zio napoletano
ed essendo il Napoli gemellato con il Genoa, per lui quella era un’offesa
notevole. Sarebbe stato più cattivo dire Mannaggia
la Juve ma
come mi aveva fatto notare lui, i tifosi della Sampdoria a Mondragone erano due
o tre e quindi il rischio di prenderle era ridotto al minimo; per dirla tutta
uno dei tre abitava proprio di fronte casa di mia nonna.
Un giorno
camminando con Fabrizio sono inciampata e ho gridato istintivamente:
- Mannaggia la Sampdoria!
Al povero
Fabrizio per poco non veniva un infarto. Ho dovuto spiegargli l’origine di
quella imprecazione. Lui mi ha chiesto cortesemente di non ripeterla in sua
presenza.
Non so precisamente in che modo e in che misura, ma leggere questa pagina del tuo blog mi ha convinto ad andare in Erasmus e ad iniziare a tenere un mio blog... ti ringrazio!
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