4 giu 2012

parte 16: vita da pensionato!

Per ben nove anni ho vissuto a Napoli in una pensione per studenti e ho completato gli studi universitari, per cui sono una disoccupata ufficiale. Vivere in un pensionato che significa convivere con circa 25 persone. Un salottino in comune, la cucina e ben quattro bagni.
La cucina è dotata di otto fornelli funzionanti ad alternanza, il che comporta, nelle ore di punta, una confusione senza paragoni. In quella cucina ne sono successe di cose inenarrabili. Quasi tutte le matricole, me compresa, al loro primo anno di università tendono a sopravvivere più che a nutrirsi. C’è chi dopo mesi di panini e pizza però tenta di cucinare qualcosa. I risultati sono vari. C’è chi ha messo in una pentola l’acqua, il sale e la pasta e poi ha acceso il fornello. Chi ha tentato di mandare a fuoco la cucina e chi ha creato piatti nuovi all’apparenza orripilanti, ma dal gusto niente male. Un esempio di ciò è la famosa mulazza, opera di Agostino Castellano, non che mio fidanzato, e del suo coinquilino Pietro Lanzara. Sono necessari un pentolino, dei piselli e delle sottilette. Puoi immaginare la mia faccia la prima volta che me l’ha messa davanti. Ma devo dire che il gusto è ottimo. Un altro piatto che ha raggiunto fama mondiale è la Pasta e patate di Pietro Verzina, nata come un errore della ricetta originale e divenuta un piatto tipico locale.
In pensione c’è un’usanza particolare. Chiunque si laurea deve sottostare al rito del gavettone. Questo rituale prevede che il festeggiato venga bagnato dalla testa ai piedi. Ogni arma è permessa per raggiungere l’obbiettivo. I più particolari sono stati: il mio e quello di Tania (la mia migliore amica in quel posto incasinatissimo). I motivi sono semplici….io perchè ci sono caduta come una pera cotta e Tania perchè lo ha concordato. Ti spiego meglio.
Quando ho completato la laurea triennale ho fatto una festicciola con i ragazzi della pensione e altri miei amici. Ad un certo punto sono andata in bagno. Mentre mi lavavo le mani sento bisbigliare fuori dalla porta…che stupida sono stata, ma anche se lo avessi capito non avevo modo di scamparla, l’unica via d’uscita era la porta. La apro e mi ritrovo di fronte uno tzunami. Praticamente mi avevano presa in pieno con due secchi d’acqua. Ero tutta bagnata, ma la cosa più comica della scena era il rotolo di carta igienica bagnato che avevo in mano.
Con Tania le cose cono andate diversamente. Siccome il proprietario di casa ci aveva rimproverato perché ultimamente c’era troppa confusione nei corridoi e nel salottino, non potevamo permetterci di peggiorare la situazione. Abbiamo parlato con la diretta interessata e le abbiamo detto di cambiarsi e mettersi nel bagno per il rito. L’alternativa era allagarle la stanza e così ha accettato subito.
Sembrava la scena di Assassinio sull’Orient Express di Agata Christie. Ognuno dei ragazzi era armato di vari contenitori: pentole (di portata varia), ciotole e c’era anche Vincenzo con una tazzina da caffé. Il contenuto era unico però…acqua gelata.
In pensione ci sono tante camere, singole e doppie, alcune dotate di balcone ed altre no, ma tutte con un problema comune… non c’è spazio per stendere i panni quando piove d’inverno. Le alternative papabili sono due: usare l’asciugatrice che sforna delle mutande croccanti, oppure stendere i panni e coprirli con un telo di incerata. L’opzione numero due è quella più in voga, o almeno lo è stata per molto tempo anche perché è gratuita a differenza dell’asciugatrice. Questa tecnica ha un piccolo neo però. Se piove molto il telo si riempie d’acqua ed è problematico svuotarlo. Un paio di volte abbiamo rischiato il linciaggio perché abbiamo bagnato i passanti. Prova ad immaginare quattro o cinque litri di acqua ghiacciata che arrivano a tutta velocità da almeno 10 metri. Le parolacce che ci hanno detto sono state svariate ed irripetibile. Nessuno dovrebbe mai udire cose simili. Agostino mi prende in giro perché quando “per sbaglio” e sottolineo per sbaglio, faccio la doccia a qualcuno, invece di correre subito dentro, resto lì a prendermi tutti quegli improperi. La verità è che io mi sento mortificata e vorrei chiedere scusa, ma non me ne danno mai il tempo che già cominciano a bestemmiarmi tutti i morti.
Tempo fa avevo anche adottato una bimba a distanza, era del Kenia. Ha un nome che per me è molto strano, ma chissà che nella sua terra non sia comune. Si chiama Zabibu e ha dieci anni. Una sera a cena stavo parlano di questa cosa con il mio ragazzo e tre miei coinquilini. Qui in pensione ceniamo quasi sempre in compagnia. La stanza in cui vivo è piccola, ma di solito ci si entra almeno in sette. Un paio sul letto e gli altri sulle sedie intorno alla scrivania ed è fatta. Mi hanno chiesto come avevo fatto ad adottare la bimba ho risposto:
  • non bisogna fare gran che, basta mandare trenta euro al mese all’associazione responsabile. Ce ne sono varie. È ovvio si rischia, ma ci sono alcune associazioni molto accreditate che dovrebbero dare qualche garanzia in più.
 A quel punto uno dei miei coinquilini ha detto:
  • Se me li davi a me trenta euro al mese ti chiamavo pure mamma.
Come in tutti i luoghi in cui convivono tante persone oltre ai momenti in cui ci si diverte allegramente tutti insieme, ci sono anche quelli in cui si litiga. Prova ad immaginare quattro bagni da dividere in venticinque nella fascia oraria 8-9.

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