La cucina è
dotata di otto fornelli funzionanti ad alternanza, il che comporta, nelle ore
di punta, una confusione senza paragoni. In quella cucina ne sono successe di cose
inenarrabili. Quasi tutte le matricole, me compresa, al loro primo anno di università
tendono a sopravvivere più che a nutrirsi. C’è chi dopo mesi di panini e pizza
però tenta di cucinare qualcosa. I risultati sono vari. C’è chi ha messo in una
pentola l’acqua, il sale e la pasta e poi ha acceso il fornello. Chi ha tentato
di mandare a fuoco la cucina e chi ha creato piatti nuovi all’apparenza
orripilanti, ma dal gusto niente male. Un esempio di ciò è la famosa mulazza, opera di Agostino Castellano,
non che mio fidanzato, e del suo coinquilino Pietro Lanzara. Sono necessari un
pentolino, dei piselli e delle sottilette. Puoi immaginare la mia faccia la
prima volta che me l’ha messa davanti. Ma devo dire che il gusto è ottimo. Un
altro piatto che ha raggiunto fama mondiale è la Pasta e patate di Pietro Verzina, nata come
un errore della ricetta originale e divenuta un piatto tipico locale.
In pensione c’è
un’usanza particolare. Chiunque si laurea deve sottostare al rito del gavettone. Questo rituale prevede che il
festeggiato venga bagnato dalla testa ai piedi. Ogni arma è permessa per raggiungere
l’obbiettivo. I più particolari sono stati: il mio e quello di Tania (la mia migliore amica in quel posto incasinatissimo). I motivi
sono semplici….io perchè ci sono caduta come una pera cotta e Tania perchè lo ha concordato.
Ti spiego meglio.
Quando ho
completato la laurea triennale ho fatto una festicciola con i ragazzi della
pensione e altri miei amici. Ad un certo punto sono andata in bagno. Mentre mi
lavavo le mani sento bisbigliare fuori dalla porta…che stupida sono stata, ma
anche se lo avessi capito non avevo modo di scamparla, l’unica via d’uscita era
la porta. La apro e mi ritrovo di fronte uno tzunami. Praticamente mi avevano
presa in pieno con due secchi d’acqua. Ero tutta bagnata, ma la cosa più comica
della scena era il rotolo di carta igienica bagnato che avevo in mano.
Con Tania le
cose cono andate diversamente. Siccome il proprietario di casa ci aveva
rimproverato perché ultimamente c’era troppa confusione nei corridoi e nel
salottino, non potevamo permetterci di peggiorare la situazione. Abbiamo
parlato con la diretta interessata e le abbiamo detto di cambiarsi e mettersi
nel bagno per il rito. L’alternativa era allagarle la stanza e così ha
accettato subito.
Sembrava la
scena di Assassinio sull’Orient Express
di Agata Christie. Ognuno dei ragazzi
era armato di vari contenitori: pentole (di portata varia), ciotole e c’era
anche Vincenzo con una tazzina da caffé. Il contenuto era unico però…acqua
gelata.
In pensione ci
sono tante camere, singole e doppie, alcune dotate di balcone ed altre no, ma
tutte con un problema comune… non c’è spazio per stendere i panni quando piove
d’inverno. Le alternative papabili sono due: usare l’asciugatrice che sforna
delle mutande croccanti, oppure stendere i panni e coprirli con un telo di
incerata. L’opzione numero due è quella più in voga, o almeno lo è stata per molto
tempo anche perché è gratuita a differenza dell’asciugatrice. Questa tecnica ha
un piccolo neo però. Se piove molto il telo si riempie d’acqua ed è
problematico svuotarlo. Un paio di volte abbiamo rischiato il linciaggio perché
abbiamo bagnato i passanti. Prova ad immaginare quattro o cinque litri di acqua
ghiacciata che arrivano a tutta velocità da almeno 10 metri . Le parolacce che
ci hanno detto sono state svariate ed irripetibile. Nessuno dovrebbe mai udire
cose simili. Agostino mi prende in giro perché quando “per sbaglio” e
sottolineo per sbaglio, faccio la doccia a qualcuno, invece di correre subito
dentro, resto lì a prendermi tutti quegli improperi. La verità è che io mi
sento mortificata e vorrei chiedere scusa, ma non me ne danno mai il tempo che
già cominciano a bestemmiarmi tutti i morti.
Tempo fa avevo anche
adottato una bimba a distanza, era del Kenia. Ha un nome che per me è molto
strano, ma chissà che nella sua terra non sia comune. Si chiama Zabibu e ha
dieci anni. Una sera a cena stavo parlano di questa cosa con il mio ragazzo e
tre miei coinquilini. Qui in pensione ceniamo quasi sempre in compagnia. La
stanza in cui vivo è piccola, ma di solito ci si entra almeno in sette. Un paio
sul letto e gli altri sulle sedie intorno alla scrivania ed è fatta. Mi hanno
chiesto come avevo fatto ad adottare la bimba ho risposto:
- non bisogna fare gran che, basta mandare trenta euro al mese all’associazione responsabile. Ce ne sono varie. È ovvio si rischia, ma ci sono alcune associazioni molto accreditate che dovrebbero dare qualche garanzia in più.
A quel punto uno dei miei coinquilini ha detto:
- Se me li davi a me trenta euro al mese ti chiamavo pure mamma.
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